Letture 2011

L'ablazione

 
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Con “L’ablazione” Paolo Donini scrive un’opera di eccezionale valore e di eccezionale tensione. In un paesaggio di ombre e ipermercati, detriti e rovine urbane, il particolare realistico e la forza simbolica si intrecciano splendidamente. Più la scena è dettagliata — i fori d’entrata, la mano gonfia dietro la schiena, il sesso riempito di sabbia — e più si carica di sensi oscuri. Salvezza, morte e parola stringono un abbraccio originario. Veniamo condotti in un luogo purgatoriale dove siamo inquirenti e indiziati. Dobbiamo parlare. L’omicidio si lascia scrutare solo dalla voce poetica, mentre un viavai di poliziotti si affanna nello stereotipo dei verbali e dei referti. Solo quella voce può entrare nel corpo, che fin dall’inizio era un corpo di parole: «sulla schiena l’alfabeto imbrattato», «hai un livido | sul nome», «inizi a perdere senso dalla tempia, dal collo, battito, sangue | dalla ferita inarrestabile».


dalla presentazione di Milo De Angelis



PAOLO DONINI è nato nel 1962 a Pavullo (Modena) dove vive. Ha pubblicato poesie e saggi sulle riviste «La Mosca di Milano», «Anterem», «La Clessidra», «Vernice», «Tracce». Nel 2005 ha pubblicato la raccolta Incipitaria (Genesi editrice, Torino). L’ablazione è il suo secondo libro.



in questo sito , di Paolo Donini , è segnalato il libro "Incipitaria"



Per gentile concessione dell' Autore, si pubblicano alcune poesie tratte da “L' ablazione”




Una stanza, tutto è a posto, anche

il granello di polvere anche il raggio

di luce, limpida, ortogonale, quando arriviamo

non c’è più nessuno ma lì è successo.

Non ricordiamo,

hanno ripulito tutto, non sappiamo

cosa accadde, nemmeno che accadde

qualcosa, non c’è più niente che (lo) provi. Tutto

è dato nel proprio ordine, tutto

è lindo e c’è, giustamente c’è — è prevista —

una zona di polvere, opaca, una macchia

di sangue — apriamo la finestra, si respira a fatica, in fondo

alla campagna si scorge delinearsi nettamente l’orizzonte del pen-

siero.


(p 18)






C’è un campo davanti alla casa, è coperto

ma qua e là la neve si è sciolta, ha lasciato

intravedere il nero, ogni tanto passa un cane del pensiero — c’è

[un albero

che trema sempre oltre il dire, tu nel meriggio

hai un + sulla tempia, sull’altra un -


un corvo è sullo steccato, disegnato; nell’anno ameno,

in due usciamo a cogliere il nome dei fiori nel prato:

l’ucciso è riverso là sullo sterrato,

la porta si chiude all’azzurro irrisolto;


si mangia qualcosa, si fa un pisolino, il vento

circola nella bocca — piove, annotta, nel campanello

s’illumina l’inquilino: un misero caso di morosità —

chi da fuori guardasse

dalla finestra vedrebbe sul capo chino

al tavolo della cucina, sotto il filo

della lampadina, pendere l’ombra anamorfica dello sfratto —

la fortuna non è nella mano, una piccola

asta compie il suo atto, segna le ore del palmo

al bagliore di cieli vani — ed è qui che viviamo.



(p 19)








Fai le tue preghiere una a una

nella terra del canto, non hai altro


che questo vento alle dita, giunto

da una finestra qualunque


lasciata aperta, soffio

dal buio, paese delle cose


che alla soglia si arrese sfinito ma vi lasciò

la misura bianca alla fronte perché


si inventasse un bene e il suo segno.


(p 37 )








La voce che muore nel giorno

si trascina fin qui, a questo foglio di luce

come a un abbeveratoio, il grande discorso

cade in ginocchio

colpito in tutte le strade.



(p 56 )







Contano i sospiri le urla

e respirare, vivere è questo contare


le urla una a una, qui dalla carne vicina

lasciata aperta: cigola la testa che pensa


la flaccida insensatezza del male, quell’andare

qua e là come a caso ma poi fare


esattamente il punto, la punta, l’uncino.



(p 106)







C’è un punto preciso dove il metallo

ha toccato l’occhio, lì


non c’è immagine

ma labbro sfondato, lo scontro


è questo, sempre

tra punta e nome


tra il colpo e la voce,

dunque tu offriti e inizia a parlare.



(p 107)







Non ne eravamo certi ma tu

non eri più qui: il vento che apre

una finestra — il lampo che dirama, la grandine

al vetro — non è un segno, nessuno ci chiama, solo questo

che tu graffi di notte alla porta

è un segno, runa o impronta

che ti annuncia e non si decifra: ieri abbiamo

girato tutte le cose e non c’era

il nome, abbiamo ordinato il paesaggio, preso

dimore qualunque, terre

coltivabili ma dicono che stai

già col prato, salti il fossato, vai nell’incolto; dicono che

ti contenti dei sassi e conosci le tane, che eludi i divieti,

sai dove sono gli squarci nelle reti, urli di notte

qualcosa di felice che noi non abbiamo più.



(p 114)








Quando ti chiamavo per nome

la bocca si riempiva di vento, un’ora

scontenta sul mondo porta

a vivere così, quando il bene resta solo

tu vieni presa e fermata, iniziano

a contarti i centesimi sulle ciglia

ti viene tolto il minuto e sei

viva senza mondo.



(p 115)


JAlbum 7.3